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  • Ad un passo dalla musica

    Martina Sergi ad un passo dalla musica.

    A ridosso della sua uscita discografica, Martina si racconta e ci regala uno scorcio della sua personalità. 

    Non so definire bene in che momento io abbia iniziato a raccontare me stessa e le vite delle altre persone tramite le canzoni, ma so che questo bisogno nasce da dentro e non dargli modo di prendere forma sarebbe un peccato.Ho sempre guardato gli artisti pensandoli come qualcuno di inarrivabile, come se ci volesse una motivazione valida per essere definito tale e questo per tanti anni mi ha bloccata dall’esprimere ciò che sentivo dentro. Poi un giorno ho deciso di provare a scrivere per me, ho deciso di mettere me stessa nero su bianco, di raccontare ciò che provavo e dare a quel testo una melodia, provare a farlo risuonare e da lì non ho più smesso. Ricordo di avere avuto intorno a 12 anni quando scrissi la mia prima canzone, ero seduta in giardino e avevo davanti carta e penna e imbracciavo la mia tanto amata chitarra classica. Avevo subito una perdita tanto dolorosa, la scomparsa di mia nonna Lucia e sentivo di non riuscire a far comprendere quanto io stessi male e sentissi la sua mancanza. Lei era andata via ed io credevo di non averle detto tutto, di non aver avuto il tempo di viverla appieno. Questa sensazione cresceva ogni giorno di più e sentivo il bisogno di darle sfogo, sentivo il bisogno di parlare con lei, ma volevo un qualcosa che fosse solo nostro, qualcosa di indelebile, qualcosa di eterno, e così dopo aver abbozzato una sequenza di accordi, presi la penna in mano e ricordo ancora quella sensazione che mi pervase quando la avvicinai al foglio: era come se lei scrivesse da sola guidando la mia mano. Avevo realizzato qualcosa di speciale, ma ancora non lo comprendevo e ho accantonato la scrittura; il canto invece è rimasto parte di me ma faticavo a tirarlo fuori.Faccio un salto di svariati anni, è gennaio del 2019, ho iniziato da poco l’università, sono al primo anno, a metà del secondo semestre e sto preparando un esame. Tra una pausa e l’altra apro IG e visualizzo la foto di una citazione di Massimo Gramellini: “Se un sogno è il tuo sogno, quello per cui sei venuto al mondo, puoi passare la vita a nasconderlo dietro una nuvola di scetticismo, ma non riuscirai mai a liberartene. Continuerà a mandarti dei segnali disperati, come la noia e l’assenza di entusiasmo, confidando nella tua ribellione.”Leggere questa frase per me è stato un colpo al cuore perché l’unica cosa a cui riuscivo a pensare subito dopo era la musica, la scrittura e il canto. Decido già in quel momento che avrei terminato il mio percorso di studi ma alla fine di esso mi sarei dedicata esclusivamente alla musica.A giugno 2022 finalmente pubblico la mia prima cover, ma non mi bastava, volevo qualcosa che fosse “mia”. Inizio a cercare type beat su YT e comincio a scavarmi dentro. A mettermi a nudo con me stessa. Cosa c’era in me che aveva la necessità di essere raccontato? C’era qualcosa che avevo soffocato e che volevo tirare fuori tramite l’arte e la musica? Qualcosa che volevo sfogare in una maniera che mi facesse sentire libera? C’era una delusione d’amore ricevuta qualche anno prima che mi aveva realmente segnata, un amore vissuto nel segreto, con fatica e dolore. Decido di ritirarlo fuori e devo ammettere che dopo averne parlato tramite il testo della mia prima canzone autobiografica, Falling Apart, ho sentito una sensazione di pace interiore che non so spiegare. Da ho capito che è questo ciò che mi spinge a scrivere e cantare di me: il fatto di cercare tutto ciò che ho sempre tenuto dentro, le storie nascoste che porto con me, le cose vissute e trasformarle in parole e musica, alla ricerca di quella sensazione di pace e libertà che mi da il fatto di averle buttate fuori e averne creato un qualcosa. Durante il mio processo creativo sento come una “fatica” da affrontare, cerco di spogliarmi di tutto e di essere onesta con il foglio che ho davanti. Scrivo rigorosamente con carta e penna (anche se a volte per necessità uso comunque le note del telefono) e seduta sul pavimento perché mi da la sensazione di essere più vera. Mi scavo dentro, cerco quelle parole che possano toccarmi l’anima, quelle parole che possano andare dritte per la loro strada e raccontare di un qualcosa. Tutto questo è per me come un grande crescendo, un climax: inizio dal basso, da dove ho più difficoltà, cerco di raggruppare tutte le idee che ho in mente, tutte le sensazioni che un avvenimento mi ha suscitato e di metterle in ordine per creare la storia nel testo. All’inizio è come un grande caos emotivo e non nego che ho a volte dei blocchi per cui so di dovermi fermare e riprendere a scrivere in un secondo momento (che può essere un momento qualsiasi, magari sono sotto la doccia e mi viene in mente una frase, esco di corsa e la appunto). Alla fine di tutto questo lavoro, quando vedo il testo davanti a me e sento la melodia in sottofondo, provo una gioia immensa e so che tutta quella fatica che c’è dietro è stata ricompensata. Non ho mai puntato a fare grandi numeri, anche se ovviamente ci ho sperato qualche volta, ma con il tempo ho imparato ad apprezzare i miei testi partendo proprio da quella sensazione di libertà che mi danno, e quando ho ricevuto qualche apprezzamento, anche se di una sola persona, ho realizzato di essere riuscita a scrivere qualcosa di bello e vero. Ho capito negli anni che tutto può essere e ha il diritto di essere raccontato, che l’artista per essere tale non deve essere per forza su tutti i giornali e in cima a tutte le classifiche. Qualsiasi storia raccontata è valida, e riuscire a farla diventare arte (in musica o sotto qualsiasi forma espressiva) rende la persona artista. Pian piano ho iniziato a voler raccontare non solo di me, ma anche delle vite degli altri. Ho cercato storie, ho chiacchierato con persone di varie età e ho raccolto emozioni e sentimenti. Ho provato con tutta me stessa a rendere speciali le storie che mi sono state raccontate e da queste sono scaturite alcune mie canzoni come “Never be you”, “i can’t believe” e “Emily”. Regalare ad una persona un testo in musica che parla proprio di lei e vedere il sorriso sul suo volto e la commozione e l’emozione nei suoi occhi per me è qualcosa di impagabile. Il mio modo di scrivere si è evoluto nel tempo, mescolando più modalità. A volte parto dal racconto e quindi dal testo, senza ben sapere che melodia andrà ad avere e una volta finito e individuata la tipologia di brano che voglio farne scaturire, studio assieme a Giovanni un possibile arrangiamento e modifico il testo adattandolo alla metrica che ci serve. Altre volte invece parto direttamente dalla creazione di una melodia. Questo accade quando sento sottopelle l’esigenza di scrivere, ma ho bisogno di una strada, un punto di partenza che mi susciti qualcosa e che mi faccia trovare una storia da adattare a quel suono. A volte sento l’esigenza di dar vita a qualcosa in una specifica lingua e per questo passo dalla scrittura in italiano a quella in inglese. Il processo di scrittura rimane sempre lo stesso per entrambe, ma so che ci sono alcune espressioni, alcuni suoni a livello di parola/pronuncia, alcune strade comunicative che rendono meglio in una lingua o nell’altra per una determinata storia da raccontare che ho in mente.

  • Una frammento che si trasforma in suono

    Mon Keys si racconta durate la produzione del suo primo singolo. 

    La mia fase compositiva è un viaggio interiore, un processo in cui emozioni, suoni e visioni si intrecciano per dare vita a qualcosa di autentico. Ogni canzone nasce da un’idea che può emergere da un’emozione improvvisa, da un suono che mi colpisce o da un ricordo che riaffiora. Spesso inizio con una melodia o un groove elettronico che sento vibrare dentro di me, e da lì costruisco l’atmosfera, stratificando synth, beat e testi che riflettano il mio stato d’animo.
    La mia musica è un equilibrio tra istinto e ricerca: lascio fluire le idee spontanee, ma allo stesso tempo curo ogni dettaglio, modellando i suoni per ottenere quella profondità emotiva che mi rappresenta.
    Una parte fondamentale del mio lavoro è la ricerca dei suoni che richiamano le atmosfere degli anni ‘80 e ‘90. Mi affascina il calore e la profondità dei sintetizzatori analogici, le batterie elettroniche con il loro riverbero profondo, i bassi pulsanti che creano tensione ed energia. Cerco di fondere il fascino retrò di quegli anni con una produzione più moderna, creando un ponte tra passato, presentee futuro. Il mio obiettivo è evocare quelle sonorità senza copiarle, reinterpretandole con un tocco personale.
    Quando riascolto le mie canzoni, provo un mix di soddisfazione, analisi critica e a volte nostalgia. È come rivivere il momento in cui quelle note sono nate, sentire di nuovo ciò che mi ha spinto a scriverle. Alcune tracce mi sembrano sempre fresche, come se avessero un’anima propria, mentre altre mi fanno riflettere su come sia cambiato nel tempo, sia musicalmente che personalmente. Il riascolto è un confronto con me stesso, tra passato e presente, tra emozione pura e tecnica affinata.
    Alla fine, ogni brano è una parte di me, un frammento della mia storia trasformato in suono.

  • Un Viaggio nel Buio: White Mask e il Ritorno della Dark Wave

    Un Viaggio nel Buio: White Mask e il Ritorno della Dark Wave

    White Mask emerge come una delle voci più affascinanti della scena dark wave contemporanea. Con sonorità che richiamano i classici degli anni ’80, l’artista riesce a catturare l’essenza di un’epoca, mescolando melodie malinconiche a testi evocativi. Il suo primo singolo, “Bad Dream”, è un viaggio sonoro che esplora temi di solitudine e introspezione, rendendolo un ascolto imperdibile per gli amanti del genere.

  • Yume Ascolta Yume

    Yume ascolta Yume

    A tre anni dalla sua prima uscita Yume ci porta dentro il suo mondo musicale.

    Metto le cue. Premo play.

    Parte Notte Stellata e mi ritrovo subito dentro quell’atmosfera rarefatta. Mi sembra di ascoltare una voce che parla piano, che quasi sussurra. È come stare sotto un cielo enorme, di quelli che ti fanno sentire piccolo ma in un modo bello, rassicurante. Riascoltandola, mi accorgo di quanto sia nostalgica senza essere triste, come un ricordo che, a ripensarci, ti fa stare sempre bene e che ancora lascia qualcosa dentro. I pensieri lasciano spazio alla calma. C’è quasi un senso di sospensione, come se il tempo rallentasse per farmi respirare dentro le mie stesse parole.Poi arriva Corno Blu e cambia tutto. È più intima, più vicina. C’è qualcosa di estremamente dolce e malinconico nel modo in cui le melodie si intrecciano, come se parlassero di immagini ferme nella mente, che non vogliono andarsene. Le parole sanno di amarezza, ma anche di accettazione. Mi fanno pensare a quelle cose che non puoi spiegare fino in fondo, ma che senti comunque forti. Ascoltandola, mi rendo conto che ogni nota porta con sé un pezzo di me, ma allo stesso tempo appartiene a chiunque abbia mai provato queste stesse emozioni.E poi Tutto Qua. Sorrido, perché è come se chiudesse un cerchio. Mi dà la sensazione di un respiro profondo, di quando capisci che, alla fine, le cose sono esattamente come devono essere. Non c’è bisogno di complicarle, e forse il bello sta proprio lì. Come se il viaggio, per quanto tortuoso, avesse sempre avuto una destinazione chiara.Ascoltarmi da fuori è strano. È come riscoprirmi un pezzo alla volta, come se ogni canzone mi facesse vedere una parte di me che, a volte, mi sfugge. Ma è anche bello, perché alla fine mi rendo conto che queste canzoni non sono solo mie. Appena le ascolto, diventano di chiunque ci trovi dentro un pezzo della sua storia al loro interno.La musica, alla fine, è questo: un modo per guardarsi dentro attraverso le parole di qualcun altro.